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Mi bloccai, il sorriso che mi si spegneva sulle labbra mentre incrociavo lo sguardo del cliente dai capelli d’argento. Per tutta la vita ero stata maestra nell'arte di nascondere le emozioni, senza mai abbassare la guardia, specialmente di fronte agli uomini. Ero sempre composta, indifferente alle loro parole o al loro aspetto. Ma quell'uomo… mi turbava. Era come se potesse vedere attraverso i muri che avevo meticolosamente costruito, e il solo pensiero mi terrorizzava.

«Le preparo subito il caffè» dissi, sforzandomi di mantenere una parvenza di calma mentre mi voltavo verso il bancone. «Espresso? Amaro?» lanciai la domanda alle mie spalle, sperando di mascherare il mio disagio.

«Basta che lo prepari tu» rispose lui con una leggera risata.

La sua galanteria mi provocò una punta di irritazione, che però non riuscì a fermare il calore che mi saliva alle guance. «Che mi prende?» borbottai a mezza voce, agitata dalla mia stessa reazione. Di solito avrei ignorato commenti del genere senza pensarci due volte, e forse, in una giornata storta, avrei persino messo l'uomo al suo posto. E invece adesso? Stavo arrossendo come una stupida ragazzina infatuata.

Tenendogli le spalle, mi diedi da fare dietro al bancone, decisa a non incrociare il suo sguardo. Eppure, non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione dei suoi occhi fissi su di me, come se stesse studiando ogni centimetro del mio essere. Le mani mi tremavano mentre afferravano una tazzina, che per poco non mi scivolò tra le dita.

«Riprenditi, Thalassa» mormorai tra i denti, rinsaldando la presa. Lanciai un'occhiata a Naia, che era troppo impegnata a riempire di nuovo le tazze di Sylas e Rowan per notare la mia goffaggine. Quando finalmente incrociò il mio sguardo, mi fece un sorrisetto e un occhiolino complice.

«Provaci» sussurrò, spostando lo sguardo verso l'uomo dai capelli d'argento.

La ignorai e mi concentrai sulla preparazione del caffè. Inumidii il filtro di carta, aggiunsi la polvere appena macinata e avviai l'erogazione. Il liquido denso e scuro fluì nella tazzina e, una volta pronta, la portai al suo tavolo, attenta a non guardarlo direttamente.

«Il suo caffè, signore» dissi, posando la tazzina con precisione studiata.

«La offendo in qualche modo?» La sua voce era vellutata, di quelle che restano impresse come l'ultima nota di una melodia.

«N-niente affatto!» Le parole mi uscirono di bocca prima che potessi fermarle.

Le sue labbra si incurvarono in un leggero sorriso e i suoi occhi si agganciarono ai miei con un'intensità penetrante. Il polso mi accelerò e feci istintivamente un passo indietro, mettendo distanza tra noi.

«Grazie per il caffè… Thalassa» disse, abbassando per un istante lo sguardo sul cartellino con il mio nome appuntato sulla camicia.

«Buon caffè» borbottai, ritirandomi dietro il bancone più in fretta che potei.

C'era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato il mio nome che mi fece venire un brivido lungo la schiena. Sembrava… familiare, come se mi conoscesse da molto prima di quel momento. L'ansia cominciò a farsi strada dentro di me.

"Che sia uno di loro?" Il pensiero mi colpì come un fulmine a ciel sereno. "No," mi rassicurai. "Non ha il loro odore. Lo saprei, se lo fosse."

Eppure, non riuscivo a scrollarmi di dosso quella sensazione di disagio. Mi sistemai nervosamente i guanti, poi mi tenni occupata sparecchiando il bancone.

«Thalassa, Kael ha chiesto di nuovo di te» mi chiamò Rowan, con la voce venata di divertimento. «Perché non gli dai una possibilità, poveretto?»

«Diciamo solo che Kael non è il mio tipo» risposi con un sorrisetto, gettando una pila di tovaglioli usati nella spazzatura.

Rowan ridacchiò e si sporse oltre il bancone, afferrandomi il polso.

«Andiamo, Thalassa. Se non è lui il tuo tipo, forse lo sono io.» Il suo ghigno si allargò e i suoi occhi mi squadrarono in un modo che mi fece accapponare la pelle.

«Lasciami, Rowan» dissi, con la voce tagliente.

«Non fare così» mi blandì lui, stringendo la presa. «Dovresti divertirti un po', per una volta.»

«Ho detto di no!» Con uno strattone secco, liberai la mano.

Rowan si sporse in avanti, tentando di afferrarmi di nuovo, ma perse l'equilibrio e finì per sbattere contro il bancone. Bicchieri e una caraffa del caffè vuota precipitarono a terra, andando in frantumi. Sentii una fitta acuta quando una scheggia di vetro mi tagliò il braccio.

«Thalassa!» Naia fu subito al mio fianco, afferrandomi la mano ferita.

«Ci penso io» sbottai, tirandomi indietro e allungando la mano verso la cassetta del pronto soccorso.

Naia esitò, la sua espressione un misto di preoccupazione e delusione. «Va bene» disse, facendo un passo indietro.

Mentre mi fasciavo frettolosamente la ferita, la mia mente correva all'impazzata. "Che non sentano l'odore del mio sangue. Ti prego, fa' che non sentano l'odore del mio sangue," implorai in silenzio.

Fu solo quando la confusione si fu placata che mi ricordai del cliente dai capelli d'argento. Girandomi verso il suo tavolo, lo trovai vuoto. Se n'era andato.

Tutto ciò che restava era un'unica banconota da cento dollari accanto al caffè appena toccato.

«Immagino che il mio caffè non gli sia piaciuto, dopotutto» mormorai, intascando i soldi. «Almeno è generoso.»

Il resto della serata passò in un lampo, tra spazzare vetri e pulire il disastro che Rowan aveva combinato. Quando chiudemmo, la pioggia era finalmente cessata. Eppure, mentre giravo la chiave nella toppa, sentii un freddo che non aveva nulla a che fare con il tempo.

Poi, accadde.

L'ululato — un suono che avevo pregato di non sentire mai più — echeggiò in lontananza.

Mi avevano trovata.

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