Capitolo 5
"Lo farò."
Non appena annuii, un sorrisetto soddisfatto si disegnò sulle sue rughe antiche. Nei suoi occhi stanchi si leggeva chiaramente quanto la mia resa gonfiasse il suo smisurato orgoglio. Lui è convinto che abbia ceduto per paura, che sia il timore a spingermi a subire questa ingiustizia. L'unica cosa che davvero mi spaventa in questo mondo è vedere mio fratello piangere dalla fame. Non lo merita solo per il fatto di essere mio fratello. È mio dovere prendermi cura di lui, ed è questa l'unica ragione per cui sopporto tutto questo. Lo rifarei cento, mille volte, anche se è ingiusto. Calpesterei il mio orgoglio all'infinito, solo per lui. Si schiarì la gola, sempre con quel ghigno di trionfo stampato in faccia. I suoi occhi stanchi, carichi di brama, scivolarono ancora una volta su di me.
"Fatela lavorare, ma se la sorprendete a perdere tempo, niente paga," ordinò secco al caposquadra.
"Prendi i cesti e vai nei campi," borbottò il caposquadra, liquidandomi con uno sguardo annoiato. Abbassai il capo e mi allontanai, sentendo ancora addosso lo sguardo pesante del vecchio. Presi il cesto e mi immersi nel lavoro tra i filari. Le altre donne iniziarono a bisbigliare tra loro, lanciando occhiate al mio vestito sporco e macchiato. Abbassai lo sguardo sul mio vestito: era sporco per aver trascinato legna dal bosco fino alla capanna.
L'orlo era zuppo di fango, e in un angolo si intravedeva una macchia violacea di bacche raccolte per Helio nel bosco. Me n'ero quasi scordata. Erano ancora lì, intatte. Tirai un sospiro di sollievo. Le ignorai e mi rimisi al lavoro. Quegli sguardi giudicanti non mi toccavano più: ormai ci avevo fatto il callo. Lavorai senza sosta per metà giornata, sentendo il fiato del caposquadra sempre sul collo. Sapevo che, se solo mi fossi fermata un attimo, lui avrebbe subito riferito tutto al vecchio padrone, e io non avrei visto neppure la metà della paga. Continuai a lavorare e lavorare. Il sole picchiava senza pietà sulla mia testa: era pieno pomeriggio.
Avevo la gola arsa dalla sete, dopo ore di lavoro ininterrotto. Guardai gli altri lavoratori, intenti nelle loro mansioni con una serenità che a volte invidiavo. Le loro vite scorrevano normali, così diverse dalla mia. Per me, anche le cose più semplici erano una battaglia; loro invece dovevano solo lavorare un po' per averle. Sospirai, asciugandomi il sudore dalla fronte, e fissai il sole rovente. Il cesto, ormai colmo di verdure, pesava sempre di più sulla mia schiena già dolorante. Sibilai per il dolore, mi raddrizzai e ripresi a lavorare. Dopo un po' sotto il sole cocente, il caposquadra annunciò la pausa. Lo fissai con speranza.
Posso fare una pausa anch'io?
Mi guardò senza espressione, poi fece un cenno con la mano: potevo fermarmi anch'io. Gli sorrisi, grata per quel piccolo gesto di clemenza. Poi si allontanò per mangiare il suo pranzo. Mi tolsi il cesto dalla schiena e lo poggiai a terra con attenzione, per evitare che le verdure si spargessero ovunque. Tutti erano intenti a bere, qualcuno srotolava i fagotti con dentro il pranzo. Il profumo del cibo mi fece brontolare lo stomaco. Decisi di stare alla larga dagli altri e mi rifugiai sotto un albero, aspettando la fine della pausa. Mi sedetti all'ombra, là dove il sole non arrivava. Chiusi gli occhi e mi abbandonai al riposo, poggiando la testa contro il tronco ruvido. Dopo qualche minuto riaprii gli occhi e guardai il nodo del vestito, dove custodivo le bacche. Il mio stomaco protestò ancora più forte.
"No, non posso mangiarle. Sono per Helio," mi ripetei, scuotendo la testa per scacciare la tentazione. Avevo sete, fame, e una stanchezza che mi pesava addosso. Stavo quasi per cedere al sonno, quando una voce lontana mi chiamò per nome. Mi riscosse e vidi una piccola figura avanzare con cautela verso di me, cercando di non versare l'acqua. Il mio piccolo salvatore era arrivato. Lo fissai, un sorriso timido che mi sfiorava le labbra.
"Scusa il ritardo," mormorò porgendomi la ciotola.
"Te l'ho detto mille volte, non devi portarmi l'acqua ogni giorno," dissi, bevendo avidamente.
"E lasciarti svenire dalla sete come l'altra volta?" disse, fissandomi con gli occhi socchiusi. So che si era davvero spaventato quella volta che sono svenuta. Sono rimasta stesa nei campi per ore, senza che nessuno venisse ad aiutarmi. Helio mi trovò quando tornò da scuola, tornando verso i campi.
"È successo solo una volta," mormorai, continuando a bere e sentendomi in colpa per avergli fatto prendere un tale spavento. Lo guardavo ancora con gli occhi socchiusi, cercando di distrarlo. Sciolsi il nodo sull'orlo del mio vestito.
"Guarda cosa ti ho portato," dissi, mostrandogli delle bacche selvatiche. "Bacche!" esclamò, e i suoi occhi si illuminarono vedendo quei frutti succosi.
"Dove le hai trovate?" chiese, prendendone una dalla mia mano e assaporandola con un gemito di piacere per la dolcezza.
"Le ho trovate nel bosco mentre tornavo a casa. È lì che ho incontrato Dea," dissi, sorridendo, mentre lui prendeva un'altra bacca dalla mia mano.
"Perché non ne mangi anche tu? Sono buonissime," disse Helio allegro, avvicinando una bacca alle mie labbra. Mi venne l'acquolina in bocca a guardarle, e lo stomaco mi brontolò.
"No, mangiale tu. Ne ho già mangiate un po' nel bosco." rifiutai, accennando un sorriso agli angoli delle labbra.
"È passato tanto tempo, avrai fame. Dai, mangiane anche tu, sono troppe per uno solo," insistette, e me ne mise una in bocca nonostante il mio rifiuto. Con lui non si può vincere. Iniziai a mangiarle anch'io, sospirando per la dolcezza.
"Ah, quasi me ne dimenticavo!" esclamò all'improvviso, tirando fuori la piccola scatola di bambù che aveva accanto. Non me n'ero accorta prima. La guardai perplessa.
"Cos'è?" chiesi incuriosita, mentre lui mi porgeva la scatola.
"Ho portato Titchy con me," disse, aprendo la scatola. Un piccolo serpente che riposava al suo interno sollevò la testa appena la scatola si aprì. Ci fissò con i suoi occhietti, facendomi sorridere: era davvero adorabile.
"Helio, perché l'hai portato qui? È ancora ferito," dissi, guardando Titchy che ci osservava come se capisse ogni parola.
"Lo so, ma Dea è tornata a casa quando sono rientrato da scuola. Non volevo lasciarlo da solo: si sarebbe annoiato. Così l'ho portato con me," disse con voce un po' triste, guardando Titchy. So che voleva solo che Titchy si sentisse a casa. Le sue intenzioni erano buone.
"Hai fatto bene, si sarebbe annoiato da solo," dissi per rincuorarlo, e le mie parole gli strapparono un sorriso.
"Secondo te, gli piacerebbero le bacche? Dovrei provare a dargliene? Anche lui avrà fame," chiese curioso mio fratello minore. Non ci avevo pensato: anche lui avrà fame. Annuii, e Helio avvicinò un pezzetto di bacca alla sua bocca, ma Titchy la rifiutò, facendoci scambiare uno sguardo deluso.
"Forse non gli piacciono le bacche," disse Helio, un po' deluso, mentre Titchy le rifiutava.
"Non essere triste, Helio. I serpenti non mangiano frutta, sono carnivori," dissi, posandogli una mano sulla spalla mentre lui continuava a fissare Titchy, che si raggomitolava nella scatola. Sentii il caposquadra che ci chiamava per tornare al lavoro.
"Helio, porta Titchy a casa. Io torno con qualcosa da mangiare," dissi in fretta, alzandomi di scatto per rientrare nei campi. Mio fratello minore annuì con la testa. Tornai ai campi e mi rimisi al lavoro. Helio e Titchy rimasero ancora un po' seduti all'ombra dell'albero, osservandomi. Dopo un po', se ne andarono, salutandomi con un cenno della mano. Lavorai senza sosta finché il sole non cominciò a calare, segnando la fine della giornata. Alla fine della giornata, mi accodai agli altri braccianti per ricevere la paga. Quando fu il mio turno, il caposquadra contò le verdure e mi consegnò la paga. Un operaio stava buttando le verdure rovinate, quelle che al mercato non si potevano più vendere. Sarebbero finite agli animali.
"Posso prenderle?" chiesi con uno sguardo pieno di speranza, rivolta al caposquadra. Lui seguì con lo sguardo il mio dito teso, alzandosi dalla sedia.
"Prendine un po'," disse, con uno sguardo di compassione. Lo ringraziai con un largo sorriso, che lui però ignorò, poi mi incamminai verso la grande casa del padrone. Li raccolsi nel piccolo cesto sgangherato che stava lì vicino. Presi il cesto e mi avviai al mercato, dove comprai del pane per la cena. Mentre tornavo a casa con il pane e le verdure tra le mani, scorsi da lontano alcune persone intente a pulire l'esterno del tempio di Drakon. È il dio drago che veglia su di noi.
Le porte del tempio si aprono solo una volta all'anno, durante la festa, per invocare prosperità e fertilità sulla terra e su chi la abita. Si dice che la terra dove viviamo, il fiume da cui beviamo, la foresta che ci dà legna e molte altre cose appartengano a lui. È il vero Signore di queste terre, perciò ogni anno dobbiamo rendergli omaggio, così da non attirare la sua ira. Il mio sguardo scivolò dalle pesanti porte del tempio all'emblema scolpito in cima. Un grande drago che sputava fuoco era scolpito con tale maestria che persino da lontano si potevano cogliere i dettagli più minuti. Rimasi incantato a fissare quell'intaglio. A renderlo vivo erano i rubini rossi incastonati al posto degli occhi. Mi parve di scorgere bagliori di fuoco in quegli occhi, tanto che aggrottai le sopracciglia. Rimasi a fissarli, dimenticando tutto il resto.
"Ehi, dove vai?" sentii gridare alle mie spalle, facendomi trasalire e risvegliandomi dal mio stato di trance. Mi ritrovai ai piedi della scalinata del tempio, guardandomi intorno spaesato.
Com'ero finito lì?
Ero confuso. Guardai le mani: erano vuote. Le verdure, il pane... Preso dal panico, mi voltai a cercarli. Li vidi lì, a terra, dove mi ero fermato poco prima. Li raccolsi, li scossi dalla polvere e, ancora confuso, gettai un'ultima occhiata al tempio prima di incamminarmi verso casa. Scossi la testa, incredulo. Che ci faccio ancora qui? Dovrei già essere a casa.
Helio starà aspettando il mio ritorno.
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