


Rina
Rina Zante
Quarantacinque minuti fa
"Siamo arrivati," disse il tassista ad alta voce, la sua voce rauca mi svegliò nel processo.
"Oh," mormorai, strofinandomi gli occhi per togliere il sonno. "Grazie."
Il viaggio verso la casa dell'Alfa non era stato una passeggiata, anzi, era stato piuttosto stancante considerando il fatto che vivevamo nei bassifondi e dall'altra parte della città.
"Rina," chiamò mia madre, anche lei con un tono stanco. "Per favore, prendi le borse mentre io pago il taxi."
"Sì, mamma." Scesi dall'auto e mi trascinai verso il retro per prendere le nostre borse dal bagagliaio.
Le valigie che usavamo per viaggiare non contenevano molto, solo pochi vestiti miseri che erano praticamente nulla. Ma era tutto ciò che avevamo in questa vita.
Tirai fuori le borse, le posai sul marciapiede e aspettai mia madre, i miei occhi che vagavano intorno. Avevamo parcheggiato direttamente di fronte alla casa dell'Alfa, un grande muro e un cancello che proteggevano la casa all'interno. Alcuni uomini della sicurezza pattugliavano intorno, i loro occhi interrogativi ogni tanto si posavano su di me e mia madre che era ancora in macchina.
In quel momento, stava discutendo con l'autista. "Per favore signore, accetti cinquanta euro invece di sessanta. Cinquanta è tutto ciò che ho." Mia madre stava implorando. Ancora una volta, un altro spettacolo derivato dalla povertà.
Sospirai, il cuore stretto dal fatto che eravamo una delle famiglie più povere del distretto. Fin dalla nascita, ero cresciuta in una famiglia molto povera. Mia madre lavorava come domestica e mio padre, un giardiniere fino alla sua morte l'anno scorso.
A causa della mia bassa posizione nella società, la gente mi guardava dall'alto in basso, compresi i miei compagni di scuola. Dalla prima alla dodicesima classe, ero stata l'emarginata sociale, senza un amico che si preoccupasse o condividesse la mia situazione con me. Mi bullizzavano, mi chiamavano con nomi offensivi e fondamentalmente rendevano la mia vita scolastica una miseria pietosa.
Per completare il tutto come la ciliegina sulla torta, il mio lupo era molto debole e io ero benedetta, o meglio maledetta, con un corpo curvilineo. Un corpo che mi faceva sempre sentire insicura, così insicura che indossavo vestiti larghi per coprirmi. Ogni altra persona, soprattutto le femmine, che avevo incontrato aveva un corpo snello e tonico, la loro forma simile a quella delle modelle.
A volte mi chiedevo, perché la dea della luna mi odiava così tanto da farmi soffrire così? Ho fatto quella domanda un milione di volte, e ancora non avevo ricevuto una risposta.
"Deve essere uno scherzo! 50 euro? Quel viaggio dai bassifondi di Sant fino a qui costa in realtà 60 euro e tu mi dici che hai solo 50 euro? Assolutamente no. Per favore, pagami tutto il mio denaro," sbraitò l'uomo, la sua voce che si alzava con ogni frase che diceva.
Mia madre implorò di nuovo, ma l'uomo fu irremovibile. Arrivò persino a prendere la sua borsa, insistendo che pagasse, ma sapevo che quello era tutto ciò che aveva. Era una pura umiliazione, le guardie avevano persino iniziato a fissarci intensamente, così presi la mia borsa per recuperare gli ultimi dieci euro che possedevo. Avevo lavorato per guadagnarli l'estate scorsa.
"Ecco." Gli infilai i dieci euro in faccia. Li prese senza dire una parola e restituì la borsa a mia madre. Andai al suo fianco e l'aiutai a scendere dall'auto, mia madre sussurrando un silenzioso grazie. Annuii in segno di riconoscimento.
Quando fummo a una distanza di sicurezza dall'auto, lui partì a tutta velocità, gridando, "Poveri fannulloni!"
Facemmo finta di non dare peso ai suoi insulti e ci dirigemmo verso il cancello. La discussione aveva preso parte del tempo che ci era stato assegnato per arrivare.
Quando finimmo con le necessarie procedure di sicurezza, fummo accompagnate all'interno. Per un momento, mia madre ed io rimanemmo in soggezione, la meraviglia brillava nei nostri occhi.
La casa ufficiale del branco era enorme, una vera e propria villa. Dipinta di un sorprendente giallo chiaro, si trovava alla fine del vialetto, uno spettacolo magnifico da vedere. Una fontana stava al centro e c'era anche una grande piscina di lato. Le auto riempivano il garage aperto, flotte di macchine costose e di lusso. In tutto e per tutto, il posto era una bellezza.
Continuammo a camminare, perse nello spettacolo spettacolare davanti a noi. Quando arrivammo alla porta d'ingresso, una guardia di stanza alla porta chiese, "Siete la signora Camila Zante?"
"Sì, sono io," rispose mia madre, annuendo con i suoi capelli ricci che avevo ereditato da lei. Avevo anche ereditato il mio odiato corpo curvilineo da lei. "Questa è anche mia figlia, Rina."
Mi raddrizzai, mantenendo il mio miglior sorriso sul viso. La guardia, un uomo che sembrava essere nei suoi primi vent'anni, mi ignorò e scorse una lista. Alzò di nuovo lo sguardo. "Ok, siete qui per il lavoro da domestica, giusto?"
"Sì, esatto. Anche mia figlia lavorerà con me," rispose mia madre.
Grazie alla dea per questa unica cosa buona che aveva fatto. Mia madre aveva ottenuto un lavoro, uno che sarebbe stato ben pagato visto che avremmo lavorato nella casa dell'Alfa. Era un grande onore, a dire il vero, e guardando l'ambiente, ero più che felice di essere lì.
"Va bene, potete entrare. Un lavoratore sarà con voi a breve per mostrarvi il posto e il vostro alloggio."
Rispondemmo entrambe, "Grazie."
Senza ulteriori indugi, mia madre ed io entrammo in quello che pensavamo fosse il nostro futuro luminoso. Un futuro che aspettavamo con ansia, vedendo che il destino ci aveva sorriso. Ma ci sbagliavamo, molto, molto sbagliavamo. E non lo sapevo allora, ma quello fu il primo errore che feci. Accettare di vivere nella stessa casa con Vincenzo, il figlio dell'Alfa. E fu un errore con cui avrei vissuto per sempre.