Enzo frustrato
Il punto di vista di Enzo
Erano passati alcuni giorni da quell'incidente. E in ogni singolo istante, mi pentivo di essere stato uno stronzo con lei. Almeno, prima mi mostrava il suo viso. Ma dopo che l'avevo scaraventata giù dalle mie ginocchia e l'avevo ferita, aveva semplicemente smesso di farsi vedere. Si svegliava più presto la mattina, mi preparava la colazione e si rintanava di nuovo in camera sua. E quando tornavo a casa dal lavoro, trovavo solo il cibo apparecchiato sul tavolo. Lei era nella sua stanza.
Mi ero lamentato del fatto che non mi preparasse niente per pranzo. E così aveva iniziato a preparare anche quello. Ma di lei, nessuna traccia. Un colpo secco alla porta del mio ufficio mi strappò dai pensieri frustranti di cui non riuscivo a liberarmi. Non riuscivo a concentrarmi sul lavoro, per niente. L'unica cosa a cui pensavo era la donna che viveva sotto il mio stesso tetto, senza però concedermi nemmeno uno sguardo. E la cosa mi stava fottendo il cervello.
«Avanti!» dissi con tono burbero. La porta si aprì e Monty entrò nel mio ufficio.
«Capo, abbiamo trovato chi passava le informazioni ad Armani. È nella sala delle torture, adesso» mi informò Monty riguardo alla seria questione che avevamo per le mani. Non aspettai che mi dicesse di chi si trattasse. Il suo tono era abbastanza grave da farmi capire che dovevo affrontare io stesso quel bastardo traditore.
Mi alzai dalla sedia e ci dirigemmo dritti verso il seminterrato, dove sapevo che i miei uomini stavano tenendo il traditore. Monty mi aprì la porta della sala delle torture. Nell'istante in cui misi piede dentro, fui accolto dalle urla strazianti del prigioniero.
Di fronte a lui era stata sistemata una sedia per me. Presi posto e i miei uomini fecero un passo indietro. «Inizia a parlare!» gli ringhiai contro, furioso. Ero già di umore nero. Volevo solo farla finita con lui e andare a casa.
«Capo! Monty si sbaglia sul mio conto. Non ti ho mai tradito. Ti prego, non potrei mai mettermi contro di te. Devi credermi» mi supplicava. La cosa che mi fece ridere fu la sua opinione su Monty.
La mia risata cupa gelò la stanza. Tutti tacquero, come se nessuno osasse nemmeno respirare. Mi chinai in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Dammi una sola ragione per dubitare del lavoro di Monty e ti lascerò vivere. Una sola. Hai la tua occasione» gli concessi quel beneficio del dubbio che tanto desiderava.
Lui guardò prima me, poi Monty. Dopodiché, passò lo sguardo per tutta la stanza, come se cercasse di capire cosa potesse dire in quella situazione. Dopo qualche minuto, chinò la testa in segno di sconfitta. Ovviamente, non c'era nessuna ragione che potesse inventarsi per mettere in discussione il lavoro di Monty.
Monty era il mio braccio destro per un motivo. Era il migliore dei migliori. Ogni volta che gli affidavo un incarico, tornava da me con i risultati solo dopo aver vagliato ogni aspetto ed eliminato ogni possibile dubbio. Un sorrisetto mi spuntò sul viso, sapendo che si era già arreso.
«Fuori tutti. È ora che io e il mio traditore facciamo una chiacchierata a quattrocchi» ordinai a tutti i presenti nella stanza. Nessuno osò fiatare. Si voltarono tutti e se ne andarono mentre mi alzavo dalla sedia. Togliendomi la giacca, mi diressi verso il tavolo con gli strumenti di tortura. Afferrai una pinza, un taser e un martello. Infilai gli attrezzi nella cintura. Tirandomi su le maniche, tornai verso il traditore.
Quando uscii dalla sala delle torture, il traditore era già morto. L'avevo torturato solo quel tanto che bastava per fargli sputare la verità. Tutta la verità. Una volta che ebbe confessato tutto, gli concessi la sua dolce liberazione da quella vita patetica e dolorosa. Uscendo, mi stavo pulendo le mani con un fazzoletto.
Le espressioni sui volti di tutti mi fecero chiedere cosa fosse successo davvero. «Hai esagerato, capo. Troppa tortura per così poche informazioni.» Monty mi spiegò perché mi stavano fissando in quel modo strano. Be', erano tutti pietrificati.
«Ero incazzato per la situazione a casa. Mi sono sfogato su quel bastardo. E chi se ne frega? Tanto stava per morire comunque» ringhiai frustrato, tornando verso il mio ufficio con Monty che mi seguiva.
«Tua moglie ti tiene ancora il muso?» mi chiese Monty. Mi aprì la porta dell'ufficio. Entrai, digrignando i denti per la rabbia.
«Sì! Non mi fa nemmeno più vedere la sua faccia. Va avanti così da giorni» sbottai seccato, gettando i fazzoletti nel cestino.
«Perché non parli con sua madre? L'ultima volta che ti sei trovato in un guaio simile, è stata lei ad aiutarti a sistemare le cose» disse Monty con calma. Lo fissai, accigliato. Lui mi rivolse un piccolo sorriso e se ne andò. Mi stavo letteralmente maledicendo per non averci pensato.
Afferrai subito il telefono e composi il numero di Isabella. Rispose quasi immediatamente. «È da un po' che non ci sentiamo, Enzo. Come stai? Come sta mia figlia?» Appena rispose, mi chiese di noi, cosa che non fece che accentuare il mio cipiglio.
«Non ti ha parlato di recente, vero?» mormorai senza pensare.
«No! Non ha chiamato. Che succede?» Potei percepire il panico nella sua voce. Mi diedi uno schiaffo mentale per non essere stato più cauto.
«Abbiamo litigato…» e con questo, iniziai a spiegare tutto a Isabella. Lei mi ascoltò in silenzio.
«Allora, fammi capire bene. Mi hai chiamato perché tua moglie… si sta comportando da moglie?» Sentendola, aggrottai la fronte confuso.
«È questo che ho detto? Hai almeno ascoltato una parola di quello che ho detto?» chiesi con rabbia, irritato dalla sua scenata.
«Enzo, ti ho sentito forte e chiaro. Ma credo che tu abbia perso la testa. Devi capire che non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca. Lei non si sta più comportando come tua nipote. Si sta comportando da moglie, arrabbiata con suo marito perché non si è nemmeno scusato.» Era la prima volta che mi urlava contro e, cavolo, la cosa mi rese nervoso.
«Non azzardarti a chiamarmi di nuovo finché non ne avrai un motivo valido. Mia figlia è sconvolta per quello che hai detto. Lo sarei anch'io. Chi direbbe una cosa del genere a sua moglie? Devi chiederle scusa, se vuoi rivedere la sua faccia» mi ringhiò contro come una mamma orsa furiosa.
«Ma non sono molto bravo con le scuse» sibilai a denti stretti, guadagnandomi un grugnito rabbioso da parte di Isabella.
«Lo sai meglio di me che a lei delle parole non potrebbe importare di meno, ma è l'impegno che apprezza. Sei stato tu a insegnarglielo, visto che con le parole non ci sei mai stato fottutamente bravo» mi ringhiò di nuovo contro e riattaccò prima che potessi chiederle cosa avrei dovuto fare. Ringhiando per la frustrazione, scagliai il telefono contro il muro.
